L’artista e la ricerca del sé. Intervista ad Alessandro Verdi

 “Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere”

Introduciamo con questo pensiero di Piero Manzoni, tratto dal testo “Libera dimensione” della rivista Azimuth no. 2 del 1960, la summa di una profonda intervista concessami da Alessandro Verdi.
Verdi è un artista così definito “estremo” perché quotidianamente cerca di superare il limite della propria mente, spingendosi al di là dei preconcetti. E scegliendo di andare anche io oltre “La Soglia” (dalla serie di Verdi del 2008), scorgo in lui una lealtà d’animo che raramente esiste nell’ambito artistico-lavorativo.
Nato nel 1960 a Bergamo, Verdi ha conseguito gli studi presso l’Accademia di Belle Arti, i cui insegnamenti tecnici si rivelano tuttora preziosi. Decisivo per la sua carriera, nel 1985, il fortunato incontro con il critico d’arte e scrittore Giovanni Testori, che lo porterà a inaugurare, due anni più tardi, la sua prima mostra presso la Compagnia del Disegno di Milano, dalla quale traccerà ufficialmente il proprio percorso pittorico.

Di lui si sono occupati anche Achille Bonito Oliva, Lorand Hegyi, Philippe Daverio, Maurizio Calvesi, Gino di Maggio, Gianluca Ranzi, Frederik Foert. Ma non è un caso che a scoprirlo sia stato proprio Testori: si trattava di un intellettuale interessato alla pittura espressionista in quanto scura, gestuale, controcorrente. E particolarmente a favore di artisti del nord Italia, tra cui Varlin e Franco Francese, si ritrovò specialmente affine con Verdi a partire dalle proprie tensioni spirituali, scorgendo la propria fede religiosa  in quella crudezza espressiva insita nei primi dipinti dell’artista. Se ne deduce facilmente un’analogia anche sotto il profilo caratteriale, nel comune rifiuto del presente storico e in un complesso modo di sentire e pensare la realtà.

La veracità di Alessandro si nota soprattutto davanti ad un’ingente produzione di opere, conservate con riserbo tra scaffali e cassettiere di cui – data l’urgenza creativa quotidiana – nemmeno lui stesso, al momento del nostro incontro, ricordava il contenuto. Ci ritroviamo così a sfogliare tavole dipinte a inchiostro, carbone o con materiali più insoliti e desueti, tutte rigorosamente su carta, sia in grande che piccolo formato, includendo anche libri d’artista fatti artigianalmente e ancora in lavorazione.
Ciò che vediamo fa parte di un “work in progress” di un arco di trent’anni, sottoposto ad un costante processo di riduzione materica, parallelamente ad un crescendo di ricerca della verità, il cui fulcro risiede nel leitmotiv della figura umana, vista sia come archetipo che come astrazione indefinita.
Nell’intento di “svuotare il pieno e svuotare il vuoto”, l’artista giunge alla pura consapevolezza della nascita della vita umana, quindi del senso crepuscolare di perdita di quella esperita pace primordiale. La figura si ritrova così in posizione fetale, fluttuante nel liquido amniotico, in una sospensione dal tempo e dallo spazio.

Tra le mostre più significative di Alessandro Verdi si contano:
Olii e pastelli, Galleria Compagnia del Disegno, Milano, 1987 (presentazione in catalogo a cura di Giovanni Testori); Fragmente für eine Kreuzigung, Galerie der KVD, Dachau, 1998; Opere 1999-2001, Fondazione Mudima, Milano, 2001 (presentazione in catalogo di Philippe Daverio, Lorand Hegyi, Gianluca Ranzi); Nella pagina bianca, Museo Casa Cavalier Pellanda, Biasca, Svizzera, 2005 (presentazione di Stefano Crespi); Paradise Lost/Paradise Regained, Mudimadrie-Galerie Anversa, Belgio, 2005 (a cura di Gianluca Ranzi, con testo di Achille Bonito Oliva); Il Paradiso Perduto, Galleria dell’Artistico di Treviso, 2008; Corpo senza Corpo, Galleria Blu, Milano, 2008; 53a edizione della Biennale di Venezia, con la mostra collaterale “Alessandro Verdi: navigare l’incertezza”, presso Campo della Tana, 2009; Halle Am Wasser, Hamburger Bahnhof, Berlin, 2012 (presentazione in catalogo di Gianluca Ranzi e Fredrik Foert – video realizzato da Irene Di Maggio e Raffaele Tamburri).
Attualmente vive e lavora a Cisano Bergamasco (BG).


(Martina Salerno) Ripercorrendo il tuo lavoro di artista dagli esordi con Giovanni Testori sino ad oggi, come cambia il tuo processo creativo considerando le basi da cui sei partito: la pittura gestuale ed espressionista.
(Alessandro Verdi) La gestualità apparteneva alla mia fase giovanile, dove la corporeità e l’istinto erano molto presenti. Dopodiché, in quest’arco di trent’anni, la mia ricerca è consistita nell’individuazione dei pochi elementi più autentici e veri della mia natura, non ho fatto altro che cogliere quei due o tre punti che appartengono a me, che non sono punti di arrivo, ma punti di partenza: io parto ogni giorno dall’inizio, perché questo processo interminabile è quello che sono. Dopo aver raggiunto una cosa, riparto. Non si tratta di raggiungere un traguardo – raggiungere i traguardi è di una noia mortale – ma di un processo stimolante ed infinito.
Questi elementi non esistevano ai miei esordi con Testori, perché io ereditavo molto dalla cultura dell’espressionismo tedesco, di per sé istintiva. Testori era un critico legato a questo tipo di pittura, infatti il nostro incontro coincideva con questo suo gusto.
Probabilmente ora non sarebbe interessato alle mie opere, molto distanti da quella energia corporea. Tuttavia sapevo già che avrei abbandonato quella poetica già affermata, facente parte della mia cultura e non della mia identità più pura, non della mia verità.
Ero un espressionista, ma non mi interessava focalizzarmi su quella corrente. Soprattutto, la mia mente non si sarebbe mai chiusa a quel particolare genere esclusivamente per favoreggiare le gallerie e quindi il mio successo. L’espressionismo è un punto di inizio che mi ha aperto altre strade che però, come dicevo poc’anzi, non giungeranno mai a una fine: il mio punto di arrivo esiste per soli cinque minuti, dopodiché sono concentrato su qualcos’altro per via del mio atteggiamento infinito. La mia mente mi dà tante idee, una dopo l’altra, il che rende impossibile finire un’opera.
Ho dovuto riconsiderare il mio aspetto incompiuto della concretezza. Nel periodo con Testori (dall’85 all’87) non accettavo il mio modo di essere. Vedevo costantemente i miei compagni di strada che concludevano le opere, quindi confrontandomi con loro non potevo vedere positivamente questa mia progettualità infinita disinteressata a concretizzarsi.
Nel cercare la concretezza agivo fisicamente sulla pittura: dipingevo tele per strati di colore, fino a farle pesare centoventi chili. Così facendo seppellivo le mie idee ogni giorno, una sotto l’altra, in quel massiccio blocco di colori. Si trattava di quadri sofferti, ma soprattutto falliti. Avrei potuto dipingerci tutta la vita e fallirli sempre, perché in quella maniera non li avrei mai risolti.
Quello che sono mi si è chiarito da sé, è venuto a galla spontaneamente, ed io l’ho accolto dopo un lungo percorso. All’epoca, Testori aveva capito benissimo il processo che vi stava sotto. Era un intellettuale che sapeva andare in profondità, per questo sono stato fortunato ad essere stato notato da lui. Il nostro incontro era infatti perfettamente coinciso dal punto di vista professionale: era un periodo in cui i critici imponevano agli artisti il proprio gusto, ma lui non dovette farlo, perché i nostri percorsi si sono incrociati al momento giusto.
Sicuramente per come sono ora non gli interesserei più, per via del suo gusto in contrapposizione alle mie recenti opere in cui ho scelto di dirigermi verso l’arte giapponese e l’essenzialità.
In questo modo ho trovato la mia lucidità. La corporeità ha lasciato posto all’aspetto incorporeo, già presente allora, ma della quale non ero consapevole. Di riflesso, la mia tecnica fa parte della mia poetica ed è coerente con quello che io penso, perché essa ha a che vedere con la modifica da parte dell’ambiente: se il mio pensiero si trasforma, deve farlo anche l’opera. Accetto il fatto che si possa distruggere o scomparire per i procedimenti chimici adoperati, ed allo stesso modo un mio ipotetico compratore dovrà accettarlo, perché è il processo in sé che determina e crea la mia opera. Ogni artista deve essere autentico: nel momento in cui si accetta, ecco che ti rivela esattamente la propria natura e le proprie opere.

(M.S.) Possiamo dire che il tuo lavoro si è smussato nel tempo, arrivando ad essere astrazione? Qual è l’elemento o il colore che ti caratterizza di più ora, a distanza di trent’anni?
(A.V.) Questi trent’anni mi hanno fatto cogliere tre elementi ricorrenti nella mia ricerca, la quale subito dopo il periodo giovanile urgeva dirigersi verso la mia verità.
Ho colto i miei elementi fondamentali nei concetti dell’essenza e della sospensione nel tempo dove l’essa si colloca, in una specie di limbo. Non ultimo l’aspetto dell’immaterialità, della non-materia: guardando la mia intera produzione, puoi notare che man mano è andata svuotandosi completamente, a partire dai mezzi di utilizzo, sostanze liquide e trasparenti.
Sono potuto arrivare a questo solo passando per quella corporeità, per liberarmi da essa.
Per questo motivo, il colore che mi rappresenta di più è la liquidità del colore. Sebbene tu possa cogliere specifiche scelte (il blu, il rosso, il rosa, il giallo), non sono un colorista. Anche nel momento in cui devo usare il colore, io vado contro me stesso, perché mi servirei solo di bianco e nero, o del grigio perché tonale.
Quando uso i colori forzo la mia volontà per muovermi nell’oltre di cui ti parlavo. Ad esempio il blu non lo sento minimamente, eppure lo vedi nei miei lavori. Lo faccio di proposito per la sperimentazione: più del quadro finito, amo la progettazione, che è lo sviluppo di un’ idea che non prevede necessariamente una fine, gode di assoluta libertà. Mi piace questo aspetto del non finito, che fa anche parte della mia natura progettuale con la quale voglio lanciarti un’idea di me.
Resto quasi virtuale: nel concretizzare qualcosa, l’opera fallisce. Nell’obiettivo di concretizzare un’opera per vederla finita, lì arriva la noia. Perdo il fascino di quello che sono io, un processo illimitato di idee. E tutto si riaggancia quindi nella sospensione. Proprio questa mia poetica di sospensione infinita, composta di un flusso continuo di idee, è già opera. Se scendessi da questa sospensione, smetterei di fare l’artista, in quanto sia la mia ricerca che quello che sono si annullerebbero.

(M.S.) In quanto ai riferimenti adottati in precedenza, tra cui i già dichiarati Giacometti, Baselitz e Soutine, quali permangono nella tua ricerca?
(A.V.) Al di là dei miei primissimi amori, oltre i pittori inglesi (fra tutti Francis Bacon) e la pittura nordica con Edvard Munch, io amo tutta l’arte, compresa quella poeticamente lontana da me. È tutto stimolo a livello visivo, anche la lettura mi dà molto senso imperativo: leggere non è nulla, è un bagaglio astratto, ed è tutto.
Come detto, ora il mio lavoro è svolto con la forza mentale piuttosto che fisica, in altre parole è frutto della “fisicità della mente”. In questa direzione, tuttora mi diverto e sono aperto a conoscere.
Ciò che fa stare in piedi il mio lavoro è proprio la cultura, la conoscenza, l’arricchimento personale: viaggiare, arricchirmi di cultura, ogni giorno, anche tramite la quotidianità.
L’aspetto culturale che prediligo è che lavora principalmente su me stesso in quanto individuo: attraverso la pittura, ho imparato molte cose di me. Il secondo passaggio sta nel tradurre questo mio bagaglio qui in studio, con la pittura.
Chi mi conosce sa che la pittura non mi piace e mi annoia, se è fine a se stessa. Per questo dipingere è un passaggio di compromesso con la mia natura, è la cultura a renderla divertente. Per sfuggire dalla noia del dipingere, ricorro alla conoscenza. Altrimenti, se cadessi nella noia artistica non entrerei più in studio a dipingere. I questi anni ho solo fatto questo: rivelare il mio aspetto intellettuale, quello che sono.
A causa di questa mia integrità, dato che in questa mia logica non rientra il concetto del mercato, va da sé che sotto l’aspetto concreto del denaro mi sono lasciato sfuggire tante occasioni. Il mio lavoro autentico è quello intellettuale, che si discosta dai requisiti commerciali.

(M.S.) In virtù del tuo infinito processo di idee, ha ancora senso scandire e distinguere la tua ricerca in cicli tematici?
(A.V.) I cicli tematici nascono dal bagaglio intellettuale, non nascono in senso strettamente estetico. Diventa successivamente una convenzione quella del tema: la mia serie di opere non dovrebbe avere né titolo né numerazione. Per me l’espressione è una porta sempre aperta all’infinito: che titolo posso dare a questo concetto? La mia natura è proiettata all’infinito, è senza tempo.

“Il corpo implode dentro di sé costretto a defluire soltanto attraverso la maschera del linguaggio”
Achille Bonito Oliva

(M.S.) In questa tua fase più recente è presente per l’appunto quel senso di sospensione volto all’idea di eterno. Già dal processo di preparazione dei solventi, i tempi di attesa si dilatano, protraendosi fino al “termine” del risultato ottenuto: non totalmente da te stesso, bensì rifinito dalla natura e dagli agenti atmosferici. Parlaci della tua concezione di tempo.
(A.V.) La mia lunga attesa controbilancia quella giovane immediatezza espressionistica.
Agli esordi espressionistici, sebbene fossero parte di un processo inevitabile in cui non baravo con me stesso, cercando di rimanere me stesso, avevo comunque paura della mia verità, dell’essenza, per cui la reprimevo. Accettandola oggi, capisco che è altresì più importante lo spazio vuoto rispetto al contenuto. Trent’anni fa, il vuoto era proprio la cosa che mi terrorizzava. Le mie pesanti tele costituite di strati di colore uno sopra l’altro erano la prova del pieno da me imposto contro il mio horror-vacui.
Forzavo di proposito la corporeità dei quadri: non essendo maturo, mi creavo una forma panica che voleva sfuggire la verità. Ho sempre forzato la pittura, perché ritengo che l’unico modo per andare oltre ciò che è già stato fatto prima di me sia quello di forzare dei limiti. Sebbene la mia prima mostra era un omaggio a Chaïm Soutine, artista che dichiaratamente ho omaggiato, non ho mai pensato di passare la mia vita sulle tracce di Soutine, servendomi del suo stile: io dovevo diventare Alessandro Verdi.
Per quanto mi riguarda, l’unico mezzo per spostare la storia, per continuare nell’orizzonte di una nuova ricerca artistica, per vedere se c’è qualcos’altro, è appunto la forzatura.
Si percorre la vita per arrivare a qualcosa e per essere sé stessi, non per riprodurre i miti dei libri di storia dell’arte. Posso perfettamente capire che il tentativo di trovare, capire e accettare sé stessi è un fatto molto complesso, non è detto che riusciamo a oltrepassare la storia, è più sicuro ripeterla.

(M.S.) Tu cerchi di andare al di là dei limiti dell’arte? La cogli in quanto espressione o linguaggio?
(A.V.) Entrambe. Espressione perché l’arte è un mezzo per esprimersi. Nel mio caso, mi esprimo con i mezzi della pittura. Inoltre, secondo me l’arte deve avere un linguaggio, un contenuto insito a sé stesso.
In un certo senso sì, voglio andare oltre il limite, che non è nient’altro che il tuo libro di storia dell’arte: si tratta giusto di quella cosa lì, già definita. Non è questione di fare il ribelle della società. Voglio ribellarmi a quel limite insito nella mia mente, smuovendo quel qualcosa per andare oltre. Non credo tanto meno nella concezione fisica del ribelle, perché in realtà, chi rivoluziona lavora esclusivamente nella propria testa.
Uso l’arte per approdare a qualcosa d’altro, che coincida sempre più al mio essere.
Da quel che ho capito in questo mio lungo percorso, andare oltre la storia significa conoscere me stesso. Purtroppo, mi devo accettare.

“Parlo ad alta voce, sento e penso nell’infinità”
Alessandro Verdi

 

Intervista tenuta il 31 Marzo 2019.
Studio di Alessandro Verdi, Cisano Bergamasco


PHOTO CREDITS

Alessandro Verdi, quaderno “La Soglia”, 2009, 70×100 – Galleria Melesi
Alessandro Verdi, Navigare L’incertezza (Floating in Uncertainty) – Galleria Melesi
Alessandro Verdi. Quaderno Senza Volto, 70×100 cm, 2001;
Alessandro Verdi. Quaderno Senza Volto, 100×140 cm, 2001 – Galleria Melesi

Alessandro Verdi – bergamopost
Alessandro Verdi. Senza volto, 2007, tecnica mista su tela – bergamopost

Alessandro Verdi, Black Series 2, 2010. Watercolors and clearcoats. 78 x 107 cm – mrfineart.it
Alessandro Verdi, Black Series, (2010?), carboncino e olio su carta – mrfineart.it
Alessandro Verdi, La Soglia, 2008, tm su tela – cm. 300×540 – mrfineart.it
Alessandro Verdi, Frammenti per una crocifissione, 2003, tecnica mista su tela, cm. 51×70 – fidesarte
Opera inclusa nel quaderno dipinto: “Navigare l’incertezza”, 2011/13, tecnica mista su
carta, 56 pagine, cm. 70×100 aperto. – Galleria Blu

 

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Nata a Milano nel 1995. Laureata in Estetica all'Università degli Studi di Milano. Lavora come mediatrice d'arte presso Fondazione Luigi Rovati e collabora all'archivio di Valeria Magli.

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